Cinquantasette pagine di ricorso nelle quali il procuratore generale Giuseppe Amato replica alla sentenza di assoluzione emessa dai giudici della Corte d’Appello di Roma nei confronti di Marco, Franco e Anna Maria Mottola, i tre componenti della famiglia accusati di aver ucciso nel giugno del 2001 nella caserma dei carabinieri di Arce, la diciottenne Serena Mollicone.
«La mancanza di valutazione degli argomenti portati dall’accusa e, in alcuni casi, la mancanza di valutazione tout court», spiega il ricorso firmato dal sostituto procuratore generale Debora Landolfi, «risulta evidente ove si consideri che il giudice, pur riconoscendo la valenza accusatoria degli elementi, non solo dichiarativi, acquisiti in atti, ne ha neutralizzato la rilevanza senza una spiegazione logica e comprensibile, limitandosi a considerazioni meramente assertive, senza valorizzazione di ipotesi alternative concretamente sostenibili».
Il ricorso riguarda soltanto i Mottola e non i due carabinieri Quatrale e Suprano. «Consapevoli che ci si trova in presenza di una cosiddetta ‘doppia conforme’ sentenza di assoluzione», si legge nel ricorso, «qui si vuole, potendolo fare, censurare la decisione liberatoria perché il giudice di Appello è incorso non tanto e non solo in evidenti carenze motivazionali, ma, di più, ha reso una motivazione solo apparente per non aver espresso un ragionamento intrinsecamente coerente e una valutazione argomentata degli elementi di prova (compresi quelli, nuovi, emersi in secondo grado) e per non avere esaminato le argomentazioni contrarie avanzate dalla procura generale sostenendone, eventualmente, l’infondatezza, l’indifferenza o la superfluità».
Ma andando nel dettaglio ecco quali sono i punti focali del ricorso: si parte con la testimonianza di Marco Malnati, compare di Santino Tuzi che nel processo di secondo grado ammette di aver mentito alla Corte d’Assise di Cassino per paura di ritorsioni.
Si prosegue poi con l’alibi di Marco Mottola e qui il procuratore generale interviene con un ampio paragrafo: “Esso riferisce in sede di interrogatorio nel maggio del 2002 di essere andato sia al Bar della Valle, il 1 giugno del 2001, con la fidanzata Laura Ricci. In realtà la stessa ha dichiarato che nel 2001 non era affatto la sua fidanzata ma lo sarebbe diventata nel 2002. La Corte d’Assise d’Appello, pur avendo accennato che era altamente improbabile che due fossero andati al bar della Valle insieme, dunque ritenendo evidentemente che Marco Mottola avesse mentito alla polizia giudiziaria, si è soffermata sull’interpretazione che all’epoca la Ricci diede ma non ha spiegato perché Marco Mottola abbia coscientemente mentito alla PG su questa circostanza se non perché sapeva che essa poteva indirizzare su di lui sospetti. Il fatto poi che abbia detto alla persona da lui indicata come testimone, che avrebbe potuto essere sentita in merito rafforza la prova delle sue intenzioni e questo non può essere considerato un elemento neutro solo perché la Ricci aveva inteso all’epoca la telefonata in modo benevolo”.
Non poteva non essere evidenziato l’aspetto inerente l’attendibilità di Santino Tuzi e alle «dichiarazioni acquisite in atti provenienti dal brigadiere Tuzi, che collocano inequivocabilmente la vittima nella caserma dei Carabinieri il giorno dell’omicidio». «Sono dichiarazioni cui la Corte attribuisce una intrinseca attendibilità, corroborata dal rilievo che tali dichiarazioni forniscono ‘un tassello rilevante per la ricostruzione della vicenda’. Ma da tale assunto la Corte non trae conseguenze coerenti in punto di responsabilità. E ciò fa non valorizzando concreti elementi di segno contrario, bensì limitandosi a considerare il dato aspecifico ed anzi non più attuale, perché contrastato dagli approfondimenti investigativi, della primigenia richiesta di archiviazione».
Anche la porta, ritenuta l’arma del delitto, viene citata da procuratore generale: “Le spiegazioni fornite dagli imputati sulla circostanza in cui è stata danneggiata la porta sono incongruenti e inverosimili”.
Un ampio paragrafo viene dedicato alle testimonianze di Annamaria Torriero e de la Da Fonseca. Così il procuratore generale spiega: “la sentenza impugnata non vi ha alcun tentativo di vagliare l’attendibilità dell’una e dell’altra teste per cercare di accertare cosa effettivamente la Torriero sapesse né di motivare le ragioni per cui non si è creduto alla Da Fonseca, che ha attribuito alla Torriero la volontà di nascondere all’inquirenti quanto sapeva e quando aveva a lei già raccontato. La testimonianza della Da Fonseca è di estrema importanza perché già nelle prime dichiarazioni rese al pm di Cassino, utilizzata e confermata nel corso dell’escussione dei dibattimentali, aveva dichiarato che Annamaria Torriero in epoca antecedente al Natale del 2007 le aveva riferito di aver visto Serena Mollicone in caserma il giorno in cui è sparita, nell’occasione in cui anche lei si era recata in caserma per portare un panino a Tuzi precisando che si erano anche salutate. La circostanza è stata negata con forza dalla Torriero che ha tuttavia ammesso di essersi recata in varie occasioni in caserma per portare qualcosa a Tuzi e di aver visto in varie occasioni Serena Mollicone in caserma o nei pressi della caserma, negando tuttavia che fosse avvenuto il giorno della sua scomparsa”.