Lo scorso week-end si è tenuto a Pescara il Congresso dell’Unione Camere Penali Italiane, l’associazione che rappresenta i penalisti italiani. La Camera penale di Cassino, con il suo presidente, l’avvocato Pasquale Improta, e con i delegati Luciano Riccardelli ed Antonio Di Sotto, ha partecipato all’importante evento che ha visto confluire nella città abruzzese oltre 700 delegati provenienti da ogni foro di Italia.
Si è parlato della situazione drammatica delle carceri italiane, della riforma della giustizia targata “ministro Cartabia” e del fenomeno del “populismo giudiziario”.
Presidente Improta quali conseguenze per la giustizia penale si delineano con la riforma cd. “Cartabia”?
“La riforma Cartabia contempla un corposo e complesso pacchetto di misure che presenta molte criticità ma ha anche aspetti positivi per la giustizia. Si stanno valutando gli effetti applicativi di significativi interventi che verranno operati sul codice di procedura penale: potremo esprimerci con maggiore incisività quando inizieremo a valutare le conseguenze pratiche della riforma. Vigileremo, questo è sicuro, affinchè la logica squisitamente efficentista che ha contraddistinto lo spirito riformistico (celebrare processi più rapidi ed abbattere il carico di pendenze giudiziarie) non vada ad erodere le garanzie fondamentali che sono patrimonio di ogni individuo che si trovi coinvolto in un processo penale. La partita si gioca fondamentalmente su questo campo”.
Secondo lei il processo penale in Italia è a rischio?
“Credo di no. Nel senso che il nostro Paese ha nel suo assetto costituzionale e nella sua forma repubblicana anticorpi in grado di proteggerlo da ogni intervento che sovverta i principi fondanti del nostro ordinamento.
L’attenzione dei penalisti italiani è focalizzata sulla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo soprattutto quando questi è soggetto ad un procedimento penale. Si dovrà vigilare sul rigoroso rispetto della presunzione di innocenza, sulla possibilità data all’imputato di potersi difendere dinanzi ad un Giudice imparziale in condizioni di parità con l’accusa garantendo la formazione della prova, che poi il Magistrato utilizzerà nella propria decisione di assoluzione o condanna, in contraddittorio tra le parti”.
Quale fotografia dello stato delle carceri italiane è emerso durante i lavori congressuali?
“La situazione carceraria italiana non è, allo stato, confortante. I suicidi dei detenuti sono aumentanti in maniera inquietante; in alcuni istituti penitenziari è di fatto limitata al lumicino ogni possibilità di rieducazione mancando le strutture ed il personale: così si pregiudica irrimediabilmente ogni percorso rieducativo del condannato. Non è una scoperta che la recidiva criminale di chi torna libero dopo aver scontato la propria pena detentiva cala sensibilmente nei soggetti che hanno, con profitto, intrapreso, durante il soggiorno carcerario, un fattivo percorso rieducativo e formativo. Altra nota dolente è rappresentata dalle condizioni dell’edilizia carceraria che, in molti casi, è semplicemente indegna di un paese civile; ci sono Istituti di pena che hanno ancora al loro interno servizi igienici “a vista”: non bisogna oltremodo sforzare la fantasia per poter immaginare il degrado di chi è costretto ad utilizzare quei servizi. Ancora assolutamente valido, ma sempre disatteso, l’insegnamento illuministico di Voltaire: “La civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri”. Se dovessimo stilare una classifica potremmo dire che l’Italia si attesta in zona retrocessione”.
Il tema principale del Congresso è stato:” La Giustizia oltre il populismo”. Secondo Lei l’Italia fa ancora i conti con questo fenomeno?
“Come ho avuto modo di dichiarare in sede congressuale, la Giustizia è lontana anni luce dal “giustizialismo”; essa è amministrata in nome del popolo e non “secondo” il popolo. Il populismo è una creatura che si nutre avidamente delle pulsioni più becere e delle paure ancestrali degli individui, meglio se conglomerati in una massa indistinta i cui “melmosi umori” posso essere traboccare e diffondersi esponenzialmente attraverso i social. Questo fenomeno fa leva sugli istinti ferini di immediata vendetta verso il presunto colpevole in modo da ottenere una tranquillizzante quanto illusoria sensazione di sicurezza. Soddisfa “la pancia” vedere immediatamente all’opera la “mannaia” della Stato che si abbatte su chi, più per suggestione che per inoppugnabili prove, è ritenuto responsabile. Ci si illude così di aver conquistato la pax sociale dopo il delitto, invece si gettano sinistre basi per una vendetta di Stato che mina la sicurezza del consorzio sociale esponendo alla gogna mediatica persone che spesso, dopo anni di processo, vengono scagionate da ogni addebito”.
Dalle sue parole sembrerebbe delinearsi un oscuro orizzonte per la Giustizia italiana?
“No. Aver consapevolezza dei problemi è il primo passo per iniziare a risolverli. Il nostro Paese ha le forze giuste e tanti “uomini di buona volontà” tra la classe forense e la Magistratura: bisogna solamente dar spazio e possibilità a queste energie positive di espandersi e di esprimersi: i risultati non tarderanno ad arrivare. La battaglia sarà dura e faticosa ma a nessuno è concesso tirarsi indietro ed ognuno deve versare il suo obolo in termini di impegno e lavoro”.