Shannon McFarland è una stupenda top model e dalla vita ha avuto tutto: amore, una carriera di primo livello, un’amicizia leale. La sua esistenza, però, verrà distrutta quando una misteriosa fucilata la raggiunge al volto mentre è alla guida della sua auto. Shannon resta orribilmente sfigurata e incapace di parlare. È così che diventa un ‘mostro invisibile’, allontanata e abbandonata da tutti, tradita dal fidanzato e dalla migliore amica. Ma la sua vita non finisce qui perché la giovane conosce in ospedale la Principessa Brandy Alexander, cui manca solo un intervento chirurgico per diventare una vera donna. La transgender Brandy la trascinerà in un viaggio delirante e grottesco con il proposito di aiutarla a vendicarsi dei due traditori e le spiegherà come reinventare se stessa. Ma soprattutto le insegnerà che niente e nessuno è mai quello che sembra a prima vista…
“Invisible Monsters” non è solo un romanzo di Chuck Palahniuk, ma è il suo pugno dritto in faccia a tutti noi. Un libro talmente sconvolgente che doveva essere pubblicato 3 anni prima della data in cui fu fatto (1999), ma che la casa editrice scartò perché…’troppo’, troppo scioccante, traumatizzante, cinico. Così com’è poi lo stile stesso dell’autore statunitense, noto ai più per il best seller “Fight Club”, dato alla stampa – perché meno cupo – nel 1996 proprio al posto di quello di cui stiamo parlando oggi.
Palahniuk, il ‘Cannibale’ d’oltreoceano
Lo stile dell’autore è inconfondibile e molto simile a quello degli scrittori della scena pulp italiana di metà anni ’90. Innovativo, asciutto, grottesco e nichilista, a tratti minimalista, Palahniuk non ricorre ad avverbi e particelle, il suo discorso va sempre ‘a tutta’, senza ralenty. Freddure, flashback sono tipici del suo flusso narrativo, ma l’arma nascosta (come la definisce egli stesso) è il colpo di scena. Che certamente non manca in “Invisible Monsters”. Scritto in prima persona, il volume catapulta il lettore nella strenua ricostruzione di fatti assurdi. Spesso si ritrova ‘ingannato’, incinghiato in un intreccio geniale da cui se ne esce confusi. Nessun personaggio, alla fine, resta la stessa persona dell’inizio. Anzi, due personaggi scoprono essere lo stesso individuo in chiusura. Roba da far girare la testa. Immagina personalità complesse fino alla possibilità non remota dell’autodistruzione, dell’annullamento a scopo di rinascita, della mutilazione a scopo di vendetta oppure di espiazione. Figure che si perdono nei riflessi degli specchi e sfuggono ad ogni mera definizione. I dialoghi sono surreali, bizzarri, la normalità è frantumata sotto il peso di perversione e botulino, e quei brandelli si ricompongono in un blob viscido e disilluso. Nonostante tutto, le pagine ci restituiscono un fattore sincero: l’immedesimazione. Non è certo affare scontato, quando si va in giro con la faccia senza mandibola, avvolta da fasce per coprire le tue mostruosità, in auto con una ‘principessa’ transessuale e il tuo ex, body-builder ed omosessuale, alla guida. Tra ‘flash’, ormoni femminili e bramosia di vendetta.
Nessuno è sé stesso davanti lo ‘specchio delle mie brame’
“È perché siamo intrappolati nella nostra cultura, nel fatto che siamo esseri umani su questo pianeta con i cervelli che abbiamo, e due braccia e due gambe come tutti. Siamo così intrappolati che qualsiasi via d’uscita riusciamo a immaginare è solo un’altra parte della trappola. Qualsiasi cosa vogliamo, siamo ammaestrati a volerla”. Questa è una frase che mi ha particolarmente colpita del romanzo, un’aspra critica al mondo dorato e di plastica in cui viviamo tutti, non soltanto la (ex) bellissima Shannon. La sua sopravvivenza resiste a colpi di alcol e pillole rubacchiate qua e là, l’unico oppiaceo a quella ipocrisia finita in frantumi. Niente è come sembra e soprattutto ‘tu non sei tu’. Siamo tutti ‘mostri invisibili’, ostaggio di noi stessi prima ancora che della società, della moda, della famiglia. L’eccentricità dissacrante dello statunitense stupisce anche nei suoni inarticolati della protagonista, la quale avidamente chiede: “Amatemi! Amatemi! Amatemi!”, ripetuto innumerevoli volte. Palahniuk scuote le coscienze senza pudore alcuno. “Fanculo a me stessa. Sono così stanca di essere me. Me bella. Me brutta. Bionda. Bruna. Un milione di fottuti rifacimenti che non fanno altro che lasciarmi intrappolata ad essere me”. Sarà che sono donna, sarà che sono giovane, sarà che sono anch’io vittima dello “specchio delle mie brame”.
Niente è ciò che sembra – Finale sorprendente
I fili slabbrati delle storie si riallacciano per essere guardate dallo specchietto retrovisore in infinite angolazioni. Con una leggerezza che potrebbe sembrare quasi blasé, lo scrittore evidenzia che le fughe da noi stessi sono fuori moda e che la memoria resta come un macigno proprio dov’è. La magistrale scatola cinese si scioglie quindi in un finale sorprendente, commovente e tenero. Un impeto di calore nel bel mezzo di una nevrosi da fashion addicted. Come un padre ‘benevolo’ regala un climax dalla potenza di uno sparo, da piangere. Ma non boicotta il suo stesso cinismo decadente con la deresponsabilizzazione dell’edonismo umano. Semplicemente geniale. Non masticabile per chi non ama e non conosce la scrittura estrema di mister il ‘Cannibale’ Chuck.