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I serial killer in tv davvero deviano i giovani? Roberta Bruzzone sul ‘caso’ Dahmer

Il caso della serie Netflix 'Dhamer' ha dato vita ad una serie di interrogativi sulla deviazione nei giovani. Risponde l'esperta criminologa

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Un polverone, un caso mediatico che ha avuto una eco mondiale: il Mostro o il Cannibale di Milwaukee è sbarcato in tv su una discussa miniserie Netflix, ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan. Non che prima il caso Jeffrey Dahmer non fosse finito davanti alla macchina da presa grazie a lungometraggi e documentari sul terribile serial killer. Adesso, però, l’opinione pubblica si è fortemente divisa. C’è chi ha definito il prodotto, ispirato da questi neri fatti di cronaca, un ‘capolavoro’ del genere tra ricostruzione e interpretazione, c’è chi invece ne ha aspramente criticato il modo in cui la violenza è presentata nelle varie scene o come è trattata l’omosessualità dell’assassino e delle vittime. Non in ultimo, il ‘messaggio’ lanciato dalla serie: un esempio ‘malato’ per i tanti giovani che si sono appassionati alle puntate, tanto che sono stati messi in vendita gli occhiali del serial killer a 150mila dollari, come fossero un oggetto di culto. Il pubblico ha voluto sottolineare la possibilità che gli orrori narrati potessero arrivare ad avere un potere deviante sui fruitori. E le famiglie delle 17 vittime dello psicopatico interpretato da Evan Peters hanno denunciato l’assenza di rispetto di coloro che appunto ne hanno subito le macabre torture. Ma davvero un telefilm – o magari un film – possono avere un impatto così fortemente negativo sui giovani? Personalmente ho deciso di parlarne con chi ne sa ben più di noi, un’esperta assoluta in materia, riconosciuta a livello globale come un’autorità in tale ambito: la criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone, la quale si è occupata dei delitti più efferati della recente storia italiana, compreso quello di Serena Mollicone.

Jeffrey Dahmer, lo spietato serial killer

Omicidio, atti di violenza sessuale, necrofilia, cannibalismo e squartamento. Un perverso mondo di follia sanguinaria trasferito in immagini che hanno conquistato successo in tutto il mondo. Quasi 200 milioni di visualizzazioni nella settimana di debutto, Top Ten Netflix in 92 Paesi e il titolo di “serie più vista in Italia”. Siamo di fronte ad una spettacolarizzazione dell’orrore? “Sicuramente la rappresentazione su schermo di Dahmer è molto macabra – esordisce Roberta Bruzzone -. Ma il caso non è certamente nuovo bensì è stato attenzionato, anche a livello mediatico e cinematografico, da molti anni con diversi film, docufilm ecc. La serie Netflix ha solo ‘rispolverato’ certi aspetti ma non ha certamente reso Dahmer una ‘celebrità’ come viene accusata. Così come sono stati trattati casi assimilabili a questo”, spiega la famosa criminologa.

Davvero una serie tv può deviare i giovani?

Il punto fondamentale è questo: è possibile sul serio che un’immagine televisiva, per quanto cruenta e crudele, possa trasformare un ragazzo in un killer a sangue freddo? Il volto noto del crime mi risponde senza dubbi: “No, assolutamente no. Un giovane normale, sano, può vedere tutte le serie che vuole, sa collocarle nella giusta prospettiva e certamente ha potere di scernimento tra bene e male. Un soggetto con problematiche pregresse, disturbi vari, un ‘io’ fragile, un’identità evidentemente non consolidata, potrebbe trarre spunto da questo tipo di contenuti morbosi. Potrebbe altresì leggere in quelle dinamiche, nella maniera peggiore possibile, una strada per la ‘fama’. Ma solo ed esclusivamente se ci sono premesse di matrice psico-patologica”.

I campanelli d’allarme

Se, come abbiamo visto, c’è la possibilità che alcuni soggetti particolarmente fragili e problematici vengano influenzati da questo tipo di visioni, è altrettanto vero che ci sono dei campanelli d’allarme. “Esistono dei fattori tali da far scattare l’allarme e bisogna saperli cogliere tempestivamente – dice la Bruzzone. Uno di quelli inequivocabili è l’isolamento del soggetto dal mondo esterno e dalle relazioni, quando si ritira parlando molto poco di sé, rifugiandosi in un mondo di fantasia. Quando si manifesta un comportamento simile, bisogna accorgersi che c’è qualcosa che non va. Esiste un fattore che assorbe l’energia di quella persona, che la porta altrove, in un mondo intra-fisico che, se corredato da un desiderio sessuale abnorme, può far sì che sviluppi delle fantasie. Tali fantasie, prima o poi, non potranno più risolversi in maniera esclusiva nella scatola cranica del soggetto, ma dovranno concretizzarsi nel mondo reale. Questa è la storia di Dhamer, un ragazzo profondamente disturbato, con problematiche legate alle relazioni, con un interesse precoce verso il maltrattamento e la tortura di animali, su cui ha sperimentato e affinato quelle pratiche che poi avrebbe usato per seviziare le sue povere vittime. Tutto ha avuto inizio proprio con questo ragazzo che non riusciva ad instaurare rapporti con gli altri e si rifugiava nel suo spazio di immaginazione, la quale diventava sempre più pericolosa. Attenzione al disagio, in ogni sua forma!”.

Il fascino del male

Resta comunque indiscutibile un fatto: se una serie ha così tanto successo e viene guardata da una moltitudine di gente, è perché un po’ tutti, chi più chi meno, subiamo il fascino voyeuristico del male. Ma perché accade? “Fondamentalmente tutti abbiamo un lato oscuro – risponde la psicologa -. Ognuno di noi, tramite la visione di questi film è portato ad immedesimarsi o nella vittima o nel carnefice o con chi gli dà la caccia”.

La maggiore eco di Dhamer rispetto ai ‘colleghi’

Se la serie su Dhamer ha spaccato il pubblico, tanto non è successo con ‘The Serpent’, analogamente ispirata a fatti realmente accaduti e agli omicidi perpetrati da Charles Sobhraj, assassino, ladro e maestro del travestimento. Il serial killer che droga e deruba i turisti, in particolare i giovani, che viaggiano a Bangkok e percorrono il sentiero hippie. “Questo accade perché in ‘The Serpent’ la narrazione è costruita sulla caccia all’assassino, seduttivo e manipolatore, mentre in ‘Dhamer’ il protagonista è fin dalle prime battute descritto come uno psicopatico – illustra Roberta Bruzzone -, e nel primo è difficile leggerci una certificazione del suo operato. Inoltre la narrazione è molto più morbida, mentre nel secondo entra più in gioco l’empatia”.

Dhamer vs Dexter, realtà vs finzione

Su un soggetto ‘sensibile’ a queste visioni, fa più effetto una storia vera rispetto ad una di finzione, o hanno le stesse ricadute? Nello specifico, Dhamer può scatenare una volontà di imitazione rispetto a serial killer di fantasia come Dexter? “Non c’è nessuna differenza, è la stessa cosa. Se una persona è fragile e ha problematiche sarà affascinata sia da fatti reali che non. La criticità sta nel processo di identificazione che ha nei confronti del protagonista, sia se esistito nella realtà oppure no. Se ha una patologia importante, sarà in ogni caso volto ad ammirare le ‘gesta’ narrate. Quindi, concludendo, se suona il campanello d’allarme, bisogna non sottovalutarlo e attivarsi subito!”.

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