Cavernomi cerebrali, in Italia ne è affetta circa 1 persona ogni 200: cosa sono e come intervenire

Possono esserci alla nascita o formarsi nel corso della vita. In alcuni casi non sono pericolosi, in altri è necessario operare

Si stima che circa 300.000 persone in Italia abbiano un cavernoma cerebrale (o angioma cavernoso), circa 1 persona ogni 200. “Molti, però, non lo sanno e alcuni non lo sapranno mai perché il loro cavernoma non avrà mai una rilevanza clinica”, spiega Christian Brogna, esperto internazionale nella chirurgia avanzata delle neoformazioni cerebrali e del midollo spinale. “I cavernomi possono localizzarsi nel cervello, nel cervelletto, nel tronco cerebrale o, più raramente, nel midollo spinale”. Ogni anno circa 1 persona ogni 400.000 riceve una diagnosi di cavernoma cerebrale.

Ma cosa sono i cavernomi? “Sono malformazioni vascolari rotondeggianti, simili a una mora, costituiti da un agglomerato di vasi anomali con pareti molto delicate. Possono misurare da pochi millimetri ad alcuni centimetri- continua Brogna- non sono tumori cerebrali e non metastatizzano ad altre parti del corpo. Si tratta di formazioni che possono essere presenti fin dalla nascita o formarsi de novo nel corso della vita e manifestarsi a qualunque età, basti pensare che le mie ultime due pazienti hanno rispettivamente 45 e 75 anni. Tuttavia l’età cui si manifestano piu frequentemente è tra i 20 e i 30 anni. Anche i bambini ne possono essere affetti”.

“I cavernomi possono essere singoli o multipli e in questo caso, generalmente, il paziente può avere una sindrome familiare chiamata ‘cavernomatosi’ che si identifica come la presenza di cavernomi multipli in più di un componente familiare. La ‘cavernomatosi’ è una patologia genetica a trasmissione autosonica dominante ma a penetranza incompleta, ossia non si può stabilire esattamente quale sarà il rischio per i figli di sviluppare questi cavernomi. In generale- continua il neurochirurgo- il 20% dei pazienti ha cavernomi multipli e di questi la maggioranza ha una base genetica. Quindi se ci si trova a prendersi cura di un paziente con cavernoma singolo che, però, ha un altro componente familiare con cavernoma, o un paziente con cavernomi multipli, allora è necessario un counseling genetico perché uno dei tre geni CCM1, CCM2 o CCM3 può essere mutato e dunque determinare la sindrome della cavernomatosi”.

Gli angiomi cavernosi possono diventare un problema perché “alcune volte le sottili e deboli pareti dei vasi che costituiscono il cavernoma possono rompersi e sanguinare, all’interno del cavernoma o all’esterno, direttamente nel cervello o nel midollo spinale- spiega ancora Brogna- è difficile però stabilire nel singolo paziente se e quando un cavernoma sanguinerà e quantificare i danni neurologici che potrà provocare. Generalmente, infatti, queste emorragie non sono massive ma blande. Il problema, però, è che tante piccole emorragie possono ripetersi nel tempo e il loro accumulo può determinare un decadimento della qualità di vita del paziente. Si possono verificare crisi epilettiche, cefalee ingravescenti, problemi motori, del linguaggio o della vista”. Ecco allora che è necessario intervenire chirurgicamente e rimuovere il cavernoma.

“La complessità della decisione su come e quando intervenire nasce proprio in virtù del fatto che un cavernoma può dare più o meno problemi neurologici anche a seconda del punto in cui è localizzato. Il tronco cerebrale, ad esempio, è la parte più centrale del nostro cervello dove in pochi millimetri passano tutte le informazioni che connettono il cervello al nostro corpo e in cui ci sono anche i centri per la vita, ossia in pochi millimetri c’è il motivo per cui siamo vivi. Quando un cavernoma si trova in quella regione- spiega Brogna- si prende in considerazione l’aggredibilità del cavernoma dal punto di vista chirurgico facendo i dovuti bilanci. Bisogna sempre valutare i rischi-benefici di un’operazione, tenendo conto della localizzazione, delle aree cerebrali coinvolte, della presenza di emorragie o di epilessia, dell’età’, dell’evidenza di un aumento di volume nel tempo”.

“Complessa -continua l’esperto- è anche la situazione in cui il cavernoma dia come sintomo solo delle crisi epilettiche, in questi casi si può valutare di trattare le crisi intervenendo solo farmacologicamente. Recentemente, però, c’è un accumulo di evidenze che dimostrano come operare i cavernomi precocemente diminuisca il rischio di epilessie multiresistenti nel tempo”.

In ogni caso Brogna tiene a sottolineare come sia “importantissimo parlare con il paziente, fargli comprendere il perché delle scelte che vengono fatte, fornirgli una spiegazione semplice e adeguata illustrandogli le immagini della risonanza magnetica del suo cervello e della sua patologia. Nel caso in cui si decida di non operare e si quantifichi il rischio di un’emorragia come clinicamente poco significativo per quella persona (nelle sue condizioni, con la sua storia clinica, con la sua vita e i suoi desideri) allora bisogna spiegare bene il tutto perché il paziente dovrà poi seguire un protocollo di follow up nel tempo per controllare lo stato del cavernoma e vedere se darà segni di sanguinamento e se crescerà. Ma può anche succedere che un cavernoma non debba mai essere operato perché non ha un significato clinico. Ci sono alcuni pazienti, ad esempio, che scoprono accidentalmente di avere un cavernoma che però non dà segni di sanguinamento, non cresce e quindi potrebbe non essere necessario intervenire chirurgicamente”.

Il tema dei cavernomi è al centro di alcuni studi attuali. “E’ in corso una ricerca, che coinvolge sei centri italiani, per capire se la terapia medica con propanololo sia utile a modificare la storia naturale di questi angiomi cavernosi- dice Brogna- Noi sappiamo che quando il cavernoma ha sanguinato il rischio di risanguinamento aumenta ma nessuno può stabilire quando accadrà e quanto il sanguinamento influirà sulle condizioni neurologiche. Sappiamo che angiomi localizzati nel tronco cerebrale e nel cervelletto hanno un rischio di sanguinamento maggiore rispetto agli altri. Ecco allora che lo studio vuole verificare quanto la terapia medica sia in grado di modificare la storia naturale della malattia, dunque il rischio di risanguinamento e la necessità di ricorrere a interventi chirurgici”, conclude l’esperto. – Fonte comunicato stampa.

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