Il party del secolo sta per iniziare: “Venghino, signori, venghino!”. Una fastosa ed esclusiva Apocalisse attende l’Italia fatta a pezzi. Nel romanzo di Niccolò Ammaniti “Che la festa cominci” (2009), gli ultimi Cavalieri dell’Apocalisse fanno riunioni sataniste in una pizzeria di Oriolo Romano. Uno scrittore di successo da anni non tira più fuori una pagina. Il palazzinaro cafone Sasà Chiatti compra dal Comune di Roma un parco pubblico di 170 ettari per farne la sua residenza privata. Proprio lì organizza “l’imperdibile” evento mondano. Tra cuochi bulgari, chirurghi estetici, calciatori, starlette, tigri, elefanti e battitori neri reclutati alla stazione Termini, la festa vedrà il noto scrittore Fabrizio Ciba e le Belve di Abaddon, una sgangherata setta satanica, travolti in una spericolata e scatenata commedia umana.
Una tragicommedia tra cinismo e trivialità
A Villa Ada abbonda il paradossale, raccontato da Ammaniti con l’assurda ironia che gli compete. Con il pretesto del party, lo scrittore dipinge uno spaccato dell’Italia moderna e mondana, trasudante eccessi. Con tono dissacrante, ci viene offerto un testo che è idealmente diviso in tre parti, di cui la prima – La genesi – più divertente, la seconda – La festa – e la terza – Katakumba – più narrative. Nella sua originalità grottesca ed esasperata, ‘Che la festa cominci’ riesce nell’intento di descrivere il degrado che pervade la società, l’ipocrisia, il cinismo, la trivialità della massa. Il marcio che divora l’umanità in un folle divenire che assurge il pazzesco alla normalità. Nella critica graffiante ai mali che ci flagellano, il Premio Strega (per il romanzo ‘Come Dio Comanda’ 2007 n.d.r.), affonda le sue fauci nella tragicommedia, strappando e masticando brandelli di viltà e bassezze, di amore e morte.
Il delirio kitsch
Nel trionfo del kitsch si sguazza cercando di capire cosa ne sarà di quella manica di reietti che popolano le pagine del libro, se la patetica setta da grigliata…ops, satanica intendevo dire, capitanata da Saverio Moneta alias Mantos, riuscirà a sacrificare la cantante Larita, ex rockettara satanista convertita al cattolicesimo. Oppure se la stessa sarà conquistata dall’affascinante Fabrizio Ciba. Se da una parte i rutilanti vip della festa rappresentano la dura condanna della vacuità infiocchettata di sbrilluccicanti orpelli, dall’altra, le Belve di Abbadon sono lo specchio della noia e della frustrazione, dei sogni infranti. La Roma ‘Caput Mundi’ nasconde mille misteri e mille segreti. Nel ‘piano di sopra’ ci sono monumenti unici, panorami mozzafiato, moda, parchi e registi superbi. Il ‘mondo di sotto’, invece, pullula di ‘uomini talpa’, esseri fuggiti dal regime comunista dell’URSS che vivono e si sono riprodotti nell’ombra e nell’oscurità delle catacombe costruite sotto Villa Ada, a quel tempo utilizzate dai cristiani per pregare.
‘L’uman ferino‘ non si giudica
“L’appetito era l’espressione di un mondo satollo e soddisfatto, pronto alla resa. Un popolo che assapora invece di mangiare, che stuzzica invece di sfamarsi, è già morto e non lo sa.” Con un linguaggio brioso, schietto, infarcito anche di volgarità contestualizzate al racconto, la pazza storia di Ammaniti corre veloce tra avventure iperboliche e stravizi. Personalmente l’ho trovato incredibile, dall’inizio alla fine. Originalissimo. Non è un pamphlet e Ammaniti non è il Manzoni che punisce storture e deviazioni con la peste. I personaggi sono ben caratterizzati, macchiette caricaturali, uomini ricchi di difetti e di paure, affascinano e strappano una risata. ‘Che la festa cominci’ è una specie di favola a parti rovesciate: non ci sono animali umanizzati bensì umani ferinizzati. Sardonico, comico, mordace, sfrenato come solo Ammaniti sa essere. Si fagocita, si legge tutto d’un fiato. Consigliato a chi non cerca fustigatori dell’ultima ora.